Sudan. “La situazione è catastrofica”.
Il World Food Programme segnala morti per fame in Sudan, dove dallo scorso aprile è in atto un conflitto interno. L’agenzia umanitaria dell’Onu invita le parti in guerra a fornire garanzie di sicurezza immediate per offrire gli aiuti necessari.
Morire di fame nel 2024 è ancora una realtà. Lo sa bene il Sudan, uno dei Paesi più grandi dell’Africa, a nord-est del continente. In un comunicato ufficiale, le Nazioni Unite hanno denunciato le gravi condizioni in cui riversa il Paese dall’inizio del conflitto interno scoppiato lo scorso aprile.
“La situazione in Sudan è disastrosa” si legge. Secondo l’agenzia ONU World Food Programme (WFP) – la più grande organizzazione umanitaria mondiale impegnata a fornire assistenza alimentare nei contesti di conflitto ed emergenziali – in Sudan oggi quasi 18 milioni di persone si trovano ad affrontare la fame acuta. A questa cifra vanno sommati i 5 milioni di civili che soffrono di fame a livelli emergenziali in zone quali la capitale Khartoum, Darfur e Kordofan. Sempre secondo l’agenzia umanitaria, si tratterebbe del doppio rispetto all’inizio della guerra civile.
Nel 2021, un colpo di Stato ha portato al governo un Consiglio di generali guidato da Abdel Fattah al-Buhran, Presidente del Sudan e capo delle forze armate, e dal suo braccio destro, Maohamed Hamdan Dagalo, nonché leader delle Rapid Support Forces (RSF). Costituite nel 2013, da allora queste ultime rappresentano un organo di straordinaria potenza al di fuori dell’esercito, tanto da costituire una minaccia. Una volta saliti al potere, l’intesa fra Buhran e Dagalo si affievolisce sempre di più fino a sfociare in una vera e propria guerra fra l’esercito regolare e le Rapid Support Forces.Lo scorso aprile, infatti, dopo giorni di tensione, i membri della forza paramilitare sono stati ridistribuiti in tutto il Paese e, sebbene non si sappia quale delle due fazioni abbia fatto la prima mossa, gli scontri si sono rapidamente intensificati provocando centinaia di vittime. Da un lato Dagalo sostiene che l’obiettivo delle RSF è quello di combattere contro il governo “islamico-radicale” del generale Buhran per il progresso democratico a cui tanto ambisce il popolo sudanese. Dal canto suo, invece, il Presidente si dice favorevole ad un ritorno a un governo civile, purché questo sia eletto. Nel Paese, comunque, si è diffuso il sospetto che entrambi siano determinati a mantenere la posizione di potere e tutti i benefit che ne derivano.
“L’Agenzia ONU WFP chiede urgentemente alle parti in guerra di fornire garanzie immediate per la consegna sicura e senza ostacoli di assistenza alimentare umanitaria alle zone del Paese colpite dal conflitto”. Nonostante l’organizzazione abbia intensificato l’assistenza salvavita, ad oggi, solo il 10% dei bisognosi ha potuto giovare degli interventi. Per i convogli umanitari, infatti, attraversare le linee del fronte sarebbe diventato quasi impossibile a causa di tasse, ritardi nei permessi, blocchi stradali e minacce alla sicurezza. Lo scorso dicembre, poi, nello Stato di Gezira un magazzino del World Food Programme è stato saccheggiato, mentre un centro umanitario è entrato nel mirino dei combattimenti, provocando la fuga di mezzo milione di civili.
A gennaio, poi, a Porto Sudan 70 camion trasportanti riserve di cibo sono rimasti bloccati in attesa di un nulla osta arrivato solamente alla fine del mese. Prima, ad altri 31 camion era stato negato di lasciare El Obeid, tendendoli fermi e vuoti per più di tre mesi e negando assistenza ai civili. Entrambe le città sono controllate dall’esercito.
«Gli aiuti salvavita non raggiungono coloro che ne hanno più bisogno e stiamo già ricevendo segnalazioni di persone che muoiono di fame» ha affermato nel comunicato diffuso dall’Onu Eddie Rowe, rappresentate e direttore del WFP in Sudan. «Entrambe le parti coinvolte in questo conflitto cruento devono guardare oltre il campo di battaglia e consentire alle organizzazioni umanitarie di operare».
A nove mesi dall’inizio della sanguinosa guerra, otto milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Gli sforzi diplomatici per negoziare il cessate il fuoco e il ritorno a un governo civile non hanno ancora prodotto i risultati desiderati. Inoltre, si teme che dai combattimenti possano nascere ulteriori spaccature nel Paese, peggiorando la situazione politica già critica e allargando le turbolenze agli Stati confinanti.