I costi delle politiche migratorie pagati dai migranti

I costi delle politiche migratorie pagati dai migranti

Le policies europee di cooperazione si traducono spesso in accordi di gestione dei flussi migratori che hanno l’effetto contrario di creare insicurezza e vulnerabilità tra la stessa popolazione migrante. L’esperienza di chi è stato clandestino.

 Ai fini dell’analisi delle politiche migratorie europee, è necessario considerare uno strumento di policy dei confini, inaugurato dall’Italia nel 2008, con il trattato italo-libico, che ha visto protagonisti gli allora governi Berlusconi e Gheddafi. Sto parlando del processo di esternalizzazione delle frontiere. Le frontiere di cui si parla sono quelle europee, di cui l’Italia rappresenta l’entrata principale.

Tale processo consiste in una delega del controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo ai paesi di transito e di origine dei migranti. Sia chiaro che i governi africani e arabi non sono disposti a controllare i movimenti dei propri cittadini gratuitamente, infatti tutti gli accordi che si sono succeduti a partire dal 2008 tra Ue ed Africa si sono tradotti in uno scambio, per cui i paesi di origine e transito si sarebbero impegnati a controllare i propri confini nazionali per evitare fuoriuscite irregolari, e l’Ue in cambio avrebbe elargito aiuti economici. Solo per citare alcuni tra i principali accordi tra i due continenti, ricordiamo l’EU-Horn of Africa Migration Route, o anche Processo di Khartoum, siglato nel Novembre 2014 tra i 28 stati membri UE ed Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Kenya, Egitto e Tunisia, con i medesimi obiettivi, fermare gli sbarchi irregolari (nel solo 2014 ben 219.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo e l’80% di questi arrivi si è realizzato in Italia e Malta lungo la rotta del Mediterraneo centrale) in cambio di finanziamenti europei.

Sulla stessa linea d’onda si inserisce il Migration Compact, un documento presentato il 15 Aprile 2016 alla Commissione Europea dal Governo Renzi. Con questo accordo i paesi di transito e di origine (Niger, Nigeria, Senegal, Mali, Etiopia, Tunisia e Libia) in cambio di un maggior controllo delle frontiere e di una maggiore collaborazione sui rimpatri ricevono dall’UE un’opportunità di crescita economica e miglioramento della governance. L’accordo infatti prevede lo stanziamento di fondi europei di circa 1 miliardo di euro per investimenti infrastrutturali, occupazionali e istituzionali. Ma la ratio dell’accordo rimane quella della delega del controllo delle frontiere agli stessi paesi da cui i migranti scappano.

Il fallimento di un accordo di cooperazione che si fonda sulla pretesa di controllare il movimento delle persone, in cambio di soldi, è testimoniato dall’anno successivo alla sigla del Migration Compact. Come molti ricordano, l’Italia nel 2016 ha visto un record di sbarchi sulle proprie coste, con 181.436 arrivi (Fonte: Ministero degli Interni). Infatti, la vita di persone che migrano cade sotto un dominio che non è quello delle politiche pubbliche, ma della volontà. Il viaggio verso l’Europa spesso è l’ultima tappa di un percorso intraregionale e intracontinentale, che si risolve poi nel tentativo di attraversare il Mediterraneo con mezzi di fortuna, in assenza di canali di migrazione legali. L’arrivo in Italia da irregolari trasforma i  migranti in clandestini, dunque persone di cui bisogna aver sospetto e paura. Sebbene l’immigrazione clandestina non è più un reato dal 2014, le conseguenze della migrazione irregolare sono però pagate dagli stessi clandestini, i quali sono vulnerabili e, in assenza di una tutela giuridica, sono sfruttati socio-economicamente. Il lavoro ne è un’espressione.

Fonte: Ministero degli Interni

Chi proviene dal continente sub-sahariano (e non solo) da irregolare, trova in Italia un ampio spectrum di lavori informali in cui è richiesta una manodopera straniera e sottopagata. Studiando la migrazione dall’Africa Occidentale, ho riscontrato una divisione per genere della forza-lavoro straniera. L’esempio pratico è quello dell’agricoltura, che vede protagonisti soprattutto uomini africani, irregolari e sottopagati. In particolare la produzione ortofrutticola  del sud Italia si regge sul c.d. Circuito-Meridione, in cui il sistema illegale di reclutamento della manodopera nera viene definito Caporalato.

In un’intervista, un uomo ivoriano di 37 anni, M., che attualmente vive a Caserta spiega come funziona il lavoro illegale nell’agricoltura e chi sono i caporali: “Sono in Italia dal 2007, sono partito dal mio Paese, attraversando il Ghana, il Burkina Faso, il Niger, la Libia, dove sono stato in prigione per 40 giorni  e poi sono arrivato in Italia. Sono stato tre giorni in un centro di accoglienza a Lampedusa, poi mi hanno spostato ad Anagnina. Lì la commissione territoriale dopo aver esaminato il mio caso non mi ha riconosciuto la protezione internazionale, nonostante in Costa D’Avorio ci fosse la guerra civile. Dal 2007 al 2012 ho vissuto in Italia da clandestino, nel frattempo lavoravo nelle campagne, lavoravo il tabacco nell’agro aversano, Caserta, Castel Volturno…poi sono stato a Foggia dove raccoglievo pomodori e a Rosarno, raccoglievo agrumi. I lavori nei campi sono organizzati perché quando arrivi devi prendere i contatti con una persona che ti permetta di lavorare, i caporali… i caporali sono sempre neri, e li devi pagare ogni volta che vai a lavorare, solo così puoi avere la possibilità di lavorare anche il giorno dopo. Il guadagno giornaliero era di 20 euro al giorno, ma da questi devi decurtare 5 euro per il caporale e 3 euro per il corriere che ti porta ai campi”.

La situazione di sfruttamento massimo a cui era sottoposto M. è da rimandare alla sua condizione di clandestino, perché non avere documenti significa non essere riconosciuti nel mondo del lavoro formale e dunque non avere garanzie né diritti. L’unica possibilità di sopravvivenza è svolgere lavori massacranti e sottopagati, affidandosi a individui che utilizzano la condizione di subordinazione di soggetti che “non esistono” per massimizzare il proprio guadagno. M., dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari nel 2012, ha poi ottenuto un regolare contratto di lavoro.

Il caso descritto dimostra la stretta correlazione che dovrebbe esserci tra politiche migratorie e di giustizia sociale. Sancire giuridicamente che una persona senza documenti diventa clandestino, se da un lato crea sospetto e paura nella popolazione, dall’altro determina insicurezza per la persona irregolare che, per sopravvivere sarà costretta a lavori malpagati e/o gestiti da gruppi criminali.

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Tatiana Noviello