Accoglienza, sostegno e integrazione, l’ABC del fenomeno migratorio

Abbattiamo muri e costruiamo ponti.

Si presenta a noi Don Bosco 2000, l’associazione che ha ottenuto riconoscimenti dall’UNHCR, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati

L’immigrazione costituisce una delle tematiche più delicate che il nostro Paese si è mai trovato ad affrontare. Al di là degli esponenti politici e delle decisioni statali, nella vita di tutti i giorni sono diverse e molteplici le associazioni che operano quotidianamente su tutto il territorio italiano, col medesimo obbiettivo di costruire ponti e non muri tra realtà fortunate e meno fortunate. Una delle associazioni che vanta una ventennale esperienza di aiuto nei confronti dei migranti è Don Bosco 2000, il cui obbiettivo principale è quello di promuovere la formazione integrale dell’uomo, prestando particolare attenzione ai giovani e alle emergenze del nostro tempo.

Conosciamo meglio l’operato dell’associazione siciliana attraverso la voce del suo presidente Agostino Sella.

Signor Agostino, il sito della vostra Associazione si apre con un messaggio che recita così: “Accogliamo, sosteniamo, integriamo, costruiamo ponti”. Cos’è Don Bosco 2000?

“Inizialmente Don Bosco 2000 era un’associazione semplice, poi diventata impresa sociale proprio attraverso lo slogan “costruttori di ponti”. Infatti, il nostro obbiettivo è quello di costruire collegamenti tra l’Italia, in particolare la Sicilia, e l’Africa, cercando di far diventare il tema dell’immigrazione un valore aggiunto, non una sofferenza per tutti. Accoglienza e integrazione sono correlate con le attività di rientro per chi vuole rientrare presso i propri villaggi d’origine, motivo per cui abbiamo due sedi in Africa: in Senegal e in Gambia.

È ciò che noi chiamiamo “migrazione circolare”, la quale è resa possibile attraverso piccole start-up nei settori dell’agricoltura e dell’allevamento. Dunque, lavoriamo su due tipi di inserimento: uno in Italia con attività di politiche attive del lavoro e successivamente aiutando il migrante, laddove possibile, a reinserirsi nel proprio Paese.”                                                                                           

La vostra è un’organizzazione no-profit; da dove ricavate i fondi per il vostro sostentamento?

“Abbiamo diverse linee di finanziamento: da un lato un’attività di tipo istituzionale, che è legata ai progetti con SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) o con il CAS (Centri accoglienza straordinaria); poi abbiamo delle attività di autofinanziamento, che sono delle vere e proprie reti sociali, come il caso della colonia marina di Catania, di un brand di abbigliamento dal nome Beteyà (che in lingua mandinka significa bello e buono) e della vendita di prodotti alle aziende.”

 L’associazione Don Bosco 2000 promuove la cooperazione allo sviluppo locale e internazionale attraverso attività di carattere sociale, solidale, educativo e professionale e attraverso la progettualità nell’ambito dello sviluppo umano, sia in Italia che in Africa. Può illustrarci le principali attività svolte in ambito italiano e quali invece in Africa?

“In ambito italiano sicuramente è per noi fondamentale l’accoglienza, poiché non è finalizzata unicamente al vitto e alloggio, bensì cerchiamo anche di crescere noi e far crescere le persone che accogliamo.

Le altre attività principali sono legate in Italia al già citato brand Beteyà e ad attività di turismo sociale.

In Senegal è degna di nota la creazione di orti sociali, come quello di Wassadou, realizzato con l’aiuto del primo migrante di ritorno nella regione di Tambacounda. L’orto è stato avviato su un terreno di un ettaro in cui non era possibile coltivare a causa dell’aridità del terreno, con il progetto della migrazione circolare abbiamo recintato il terreno, installato tre pannelli solari per l’irrigazione a goccia e costruito un pozzo di 3.000 litri per l’acqua.”

 

Uno dei progetti che portate avanti e di cui andate molto fieri è il “Project work”. Di cosa si tratta?

“I ragazzi quando arrivano in Italia hanno bisogno di due cose: il lavoro e i documenti, tutto il resto riescono a trovarlo da soli. Il Project work è uno strumento che ci permette di avviare all’interno del mondo lavorativo i ragazzi ospiti dei nostri centri di accoglienza; ha una durata di sei mesi, al termine dei quali il ragazzo viene spesso assunto con un contratto definitivo dall’azienda in cui ha fatto esperienza. Il Project work è per i nostri ragazzi una buona occasione per imparare anche l’italiano, oltre che il mestiere.” 

Per quanto riguarda l’accoglienza migranti, l’associazione opera in Italia in ben cinque sedi distinte. Può indicarci la principale attività svolta da ciascuna di esse?

“A Catania operiamo con progetti come i corridoi umanitari e il rimpatrio volontario assistito; a Piazza Armerina e ad Aidone operiamo con SPRAR; a Pietraperzia abbiamo un CAS per minori; a Villarosa, invece, è presente un bene confiscato alla mafia, divenuto per noi l’atelier del brand Beteyà.”

Quali sono i più importanti riconoscimenti ottenuti in tutti questi anni o le più importanti soddisfazioni?

“Abbiamo ottenuto il riconoscimento dell’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), che per noi è un traguardo importante dato che si tratta di un’agenzia delle Nazioni Unite, a cui abbiamo presentato il progetto di migrazione circolare.

Un altro grande traguardo è la convenzione con alcune Università, grazie alla quale si dà agli studenti la possibilità di effettuare tirocini curriculari presso le nostre sedi, con lo scopo di realizzare momenti di alternanza fra studio e lavoro nell’ambito dei processi formativi e di agevolare le scelte professionali.”

In questi anni tanti giovani e non sono passati dalle vostre sedi. Ogni migrante racconta una storia diversa e ogni storia è importante. Ce n’è una che l’ha colpita più di tutte le altre?

“Ne abbiamo sentite talmente tante e talmente simili tra loro che non me la sento di dirne una. Sentiamo ogni giorno storie così forti da farci sembrare che siano ambientate nel 1200; purtroppo, invece, ci sono ancora in alcune parti del mondo delle situazioni e un livello di povertà tale che i ragazzi sono costretti a scappare perché non hanno da mangiare.

Il vero tema non è quello della guerra, ma quello della povertà. La guerra può sparire con un po’ di intelligenza umana; la povertà, invece, laddove è strutturale, è difficile da sconfiggere.”

 

Quest’ultima risposta conferisce al lettore un’interessante occasione per riflettere tutte le volte che, ascoltando i mass media o leggendo i giornali, si commette l’errore di pensare, anche solo per qualche istante, che i migranti siano mera merce di scambio tra Paesi e non semplicemente esseri umani, con pari diritti e pari opportunità di chi – nella sfera politica e sociale – si ostina a sostenere il contrario.

Basterebbe soltanto un po’ più di empatia: indossare i panni dell’altro e provare a immaginare cosa proveremmo se fossimo costretti a scappare dalla guerra, dalla fame, dalla povertà.

Giorgia Giangrande

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Giorgia Giangrande