Essere medicalmente una mosca bianca, riflessioni di una donna davanti al cancro
La scrittrice Deborah Di Cicco consegna al pubblico un saggio esistenziale, un libro autobiografico sul cancro per riflettere sulla conditio humana
Deborah Di Cicco si presenta al pubblico come una giovane madre della working class le cui analisi pedagogiche, etiche, politiche e antropologiche, nonché la scelta forzata del tema trattato, raccontano la straordinaria padronanza acquisita nel campo di indagine dei “fini ultimi”. L’autrice classe 1975 nata a Saronno, cresciuta a Rocchetta al Volturno e residente a Ponsacco, in provincia di Pisa, già collaboratrice presso il giornale Il Ponte di Sacco ha debuttato nel mondo letterario nel 2023 (Protos Edizioni) con un libro che potrebbe aprire il varco a una svolta culturale. Per questa ragione ho voluto intervistarla.
M.G.: Gentile Deborah Di Cicco, anzitutto La ringrazio per aver accettato il mio invito. “Storia di una mosca bianca” tratta molti temi intorno al senso dell’esistenza. Che cosa non sappiamo della vita che invece dovremmo sapere e che la malattia ci fa conoscere?
D.D.C.: Quando il cancro arriva non è una diagnosi ma una sentenza. L’unica vita che hai sta finendo e ti crolla il mondo addosso, però, in realtà, tutto può essere ricostruito passando per l’elaborazione e l’accettazione. Da questo lungo percorso assai doloroso può nascere la bellezza. C’è un esempio chiaro che è quello dell’ostrica: le perle nascono in un’ostrica il cui aspetto è simile a uno scoglio. Nascono da un dolore, la loro origine è legata ad un corpo estraneo che entra nell’ostrica e la costringe a reagire e a creare una formazione di madreperla, un elemento che ne ferisce le carni. Dalla sofferenza nasce la bellezza, come per molte cose rare e preziose. E’ così, c’è un corpo estraneo che entra e tu puoi decidere se quel corpo può non solo distruggerti il corpo ma anche l’anima. In realtà non è cambiato niente, e vorresti anche trasmettere questa cosa agli altri ma è molto difficile far capire la bellezza della vita “nonostante tutto”.
M.G.: Malattia e politica. Chi è il malato per la società contemporanea e chi è veramente? D.D.C.: Il malato è un numero. Si dice che questa impostazione sia dovuta alla privacy, però per noi malati è dura: hai un numero per l’armadietto, un numero per il letto, un numero per la visita, quindi sei un numero. E se non fosse per l’amore della famiglia oltre l’identità perderesti anche la dignità. I medici pensano più che altro in termini di malattie e non di malati, quindi non pensano che noi siamo solo portatori di un male e che abbiamo anche una nostra vita, una personalità, i figli, la famiglia, sogni…
M.G.: Nel corso della vita, un uomo su due e una donna su tre si ammalano di cancro. Perché allora la malattia e la morte sono argomenti tabù nella nostra società?
D.D.C.: Tanti nascondono ancora la loro malattia, vissuta con un senso di vergogna. Vero è che le cose che non si conoscono come la morte e il cancro spaventano per questo si fa prima a far finta di niente, per questo diventano un “tabù”. A me piace molto lo scrittore Tiziano Terzani e in “Un altro giro di giostra” egli dice che la medicina è riuscita a rimandare la morte però non dà una spiegazione sulle cose che ci sono dopo la morte.
M.G.: La fede religiosa è un altro aspetto umano che la società contemporanea ha progressivamente espunto da se stessa. Che cosa non abbiamo capito?
D.D.C.: La fede è fondamentale. Soprattutto quando stai male il senso di solitudine ti fa cercare aiuto. Quando ti senti diverso dagli altri dove puoi cercare aiuto? Io l’ho cercato nella fede, infatti, così come mi sono affidata alla medicina, allo stesso modo mi sono affidata alla fede. Per me è cambiato anche il modo di pregare, con il fatto di vedere il mondo con occhi diversi sentivo anche Dio in modo diverso, molto più vicino. Ecco, anch’io sono cambiata in questo senso, e oggi dico che parlare di fede è importantissimo: come si fa a non avere più punti di riferimento, a non credere in niente? In conclusione, anche la fede e l’amore della famiglia fanno parte della terapia salvavita.
M.G.: “Storia di una mosca bianca” è scritto con una chiarezza argomentativa ed espositiva da far invidia ai classici della formazione. Quali sono i suoi riferimenti letterari e qual è stata la sua esigenza creativa?
D.D.C.: In realtà si tratta di un’opera troppo personale per poter essere inquadrata all’interno degli schemi letterari, per quanto ampi possano essere. Io amo Tiziano Terzani, Oriana Fallaci, Jane Austen: ho sempre letto tantissimo. C’è da dire che nel mio libro c’è qualcosa di tutti gli scrittori che amo. Quello che mi preme evidenziare per definire la mia esigenza creativa è che ritengo essere il mio un “libro necessario”, e che quando prendo carta e penna entro nel mio mondo in un modo istintivo. Credo che questa sia quello che arriva.