I corpi che legano l’Africa all’italia
La testimonianza di una donna migrante vittima di tratta, tra il sogno europeo e il ricatto criminale
La forma geoide del nostro pianeta genera interconnessioni che superano i limiti geografici e politici posti dai governi nazionali. Se pensassimo il mondo così come lo vedeva Wallerstein, un sistema di dipendenze in cui un centro si rigenera assorbendo capitale ed energia dalla periferia, accomuneremmo il centro all’Occidente e agli stati industrializzati e, la periferia ai paesi in via di sviluppo. Le interconnessioni tra il centro e le periferie globali sono univoche e non permettono a chi è ai margini della nostra città-mondo di arrivare al centro, ricco e felice. E’ vero il contrario. Il centro può arrivare nelle periferie. Un esempio che riguarda da vicino l’Italia è quello dell’Agip, presente dal 1962 in Nigeria, nello stato del Delta, e impegnata in attività di estrazione del petrolio. In questo Stato, così come l’Agip, operano la compagnia USA Chevron o l’olandese Shell. Senza entrare nel merito della questione, quest’ultima è stata condannata lo scorso gennaio dalla Corte d’Appello dell’Aia per attività di sversamento di petrolio nel delta del fiume Niger e nelle aree adiacenti dal 2004 al 2007, che hanno compromesso una superficie di oltre 400mila metri quadrati di territorio.
Le connessioni tra centro e periferia sono costituite anche da corpi. L’immigrazione ne è un esempio lampante, e quella clandestina un esempio crudo. I rapporti di potere che scandiscono le connessioni fanno sì che il signor Rossi che vive a Roma possa decidere di fare richiesta per un visto turistico o di lavoro e di comprare un biglietto aereo per Benin City, Dakar, Mogadiscio o Asmara. Ma cosa può fare la signora Ibrahim, residente a Benin City, per raggiungere Roma? I tempi di attesa per l’ottenimento di un passaporto sono biblici, all’interno delle ambasciate spesso è presente personale corrotto e l’unico modo per arrivare in Europa, o quantomeno lasciare il proprio paese è rivolgersi a chi gestisce canali di migrazione illegali. I referenti del traffico di esseri umani amministrano il proprio business come dei veri e propri manager, e possono contare sulla corruzione capillare che coinvolge ogni livello amministrativo e politico del proprio paese di appartenenza, ambasciate, consolati, polizie di frontiera e militari. Un esempio evidente è quello della tratta di donne destinate al mercato della prostituzione in Europa.
In Italia infatti, l’80% delle donne che si prostituiscono, è costituito da immigrate e molte di queste sono vittime di tratta e sfruttamento che genera un giro d’affari illegale compreso tra i 250 ai 600 milioni al mese. Di queste, dalle 30.000 alle 50.000 sono vittime di prostituzione coatta e circa la metà è costituita da nigeriane. Secondo Federico Soda, capo missione dell’Oim, nel solo 2015 sono arrivate 5.600 nigeriane destinate al mercato della prostituzione in Italia. Uno dei 36 Stati in cui è divisa la Nigeria, in particolare, rappresenta il principale serbatoio di ragazze usate come corpi-merce in Italia, Edo State, dalla cui capitale Benin City proviene l’85% delle ragazze nigeriane prostituìte. Il suddetto caso è emblema di una imprenditoria criminale femminile in cui le carnefici sono donne, le c.d. maman o madam (presenti sia in Nigeria che in Italia), che sfruttano altre donne per il proprio profitto. Il metodo di approccio è molto semplice, infatti spesso la madam è un’amica di famiglia con modi gentili che propone alla ragazza un lavoro in Europa, spesso come badante o donna delle pulizie. Deve essere chiaro al lettore che la tratta è diventata ormai l’unico modo per raggiungere le coste italiane, tanto che spesso (senza voler generalizzare) le ragazze sono consapevoli dell’inganno che vie è sotteso, ma decidono ugualmente di intraprendere un viaggio potenzialmente mortale.
“Noi ragazze siamo abusate nelle connection house, di notte vengono e ti prendono, e tu non puoi dire niente sennò vieni uccisa. Anche gli uomini africani fanno violenza su di noi, e lo fanno perché hanno l’opportunità di farlo, perché sanno che non gli può succedere nulla. A loro volta, gli uomini africani vengono torturati dagli arabi, ci sono miei connazionali che rimangono in Libia per 5, 6, 7 anni e alla fine diventano capi con gli stessi Arabi. Acquisiscono potere e lo usano su di noi. Sono stata in Libia in questa situazione per quattro mesi, durante i quali alcune mie amiche sono state rapite da gruppi mafiosi arabi, che rapiscono gli Africani per poter chiedere il riscatto a casa o per tenerli come schiavi. Un giorno ci svegliarono e ci dissero che dovevamo partire. Tutti i nostri capi arabi erano vestiti da militari ma non erano veri militari…si vestono così solo per avere potere, però poi quando arriva un vero militare non sai riconoscerlo. Ci caricarono in 150 su una barca, e un’altra barca che partì con noi naufragò in mare, 45 delle persone che erano dentro morirono. Il viaggio nel Mediterraneo durò un giorno perché arrivò una nave spagnola a salvarci (non ha saputo dirmi se fosse una ONG o meno ndr), quando li abbiamo visti è stato un sollievo, non ci interessava sapere chi fossero. Siamo stati su quella nave per tre giorni, finché non siamo arrivati sulla terraferma in Sicilia”
L’esperienza raccontata da una testimone che ai tempi aveva solo 23 anni racchiude la drammaturgia di un percorso fatto di violenza e soprusi, i quali non si concluderanno con l’arrivo in Europa, ma saranno sostituiti dalla brutalità dei gruppi criminali che gestiscono il racket della prostituzione in Italia. Il problema già di per sé complesso, si complica laddove le vittime sono minori, e richiede un intervento concertato tra attori della società civile e istituzioni.