Il cromosoma in più che merita maggiori possibilità di inserimento lavorativo
In Italia le persone con sindrome di Down sono circa 38.000, la maggior parte ha più di 25 anni, solo il 13 % ha un lavoro
Le persone con sindrome di Down hanno molte potenzialità utili per diventare lavoratori produttivi
Secondo i dati dell’Associazione Italiana Persone Down 1 bambino ogni 1.200 nati in Italia ha 1 cromosoma n. 21 in più.
La sindrome di Down è una condizione genetica (non ereditaria) caratterizzata dalla presenza di un cromosoma in più. Le persone con sindrome di Down hanno, nel nucleo di ogni cellula, 47 cromosomi, ovvero un cromosoma n. 21 in più. Per questo motivo tale Sindrome è conosciuta anche con il termine Trisomia 21.
Le cause che determinano le anomalie cromosomiche sono, ad oggi, ancora sconosciute, tuttavia, numerose indagini epidemiologiche, indicano come l’incidenza dei casi aumenti con l’aumentare dell’età materna.
Nel limite delle specificità personali di ciascuno, le persone con Sindrome di Down hanno alcune caratteristiche comuni: tratti somatici distinguibili, anomalie nell’area motoria e fono-articolatoria e livelli variabili di ritardo mentale. Dal punto di vista medico, rispetto alla popolazione normotipica, si osserva una maggiore frequenza di problemi specialistici, in particolare malformazioni cardiache.
Determinati interventi educativi, basati sul rispetto delle specificità, possono favorire la crescita e lo sviluppo di bambini e giovani adulti con sindrome di Down, stimolando le loro potenzialità e l’interazione con l’ambiente circostante.
Fino a pochi anni fa le persone con sindrome di Down venivano considerate mentalmente ritardate e per sempre dipendenti dai loro genitori. Oggi, invece, per fortuna, sempre più ragazzi con sindrome di Down hanno una buona socialità, si muovono autonomamentee, i più fortunati, hanno anche un posto di lavoro.
Le possibilità di promozione dell’autonomia personale ed economica delle persone con sindrome di Down sembrano, infatti, sempre più ampie, ne abbiamo parlato con la dottoressa Monica Berarducci, responsabile dell’Osservatorio sul Mondo del Lavoro dell’Associazione Italiana Persone Down.
– Quali sono le principali attività dell’AIPD per l’inserimento lavorativo delle persone con sindrome di Down?
“L’AIPD è un’associazione nazionale con 54 sedi, in ognuna ci sono servizi attivati a partire dai bisogni specifici delle persone nei territori. Si tratta in prevalenza di percorsi per l’autonomia e di servizi SIL (servizi per l’inserimento lavorativo), con l’obiettivo di mediare l’inserimento lavorando nell’accompagnamento dell’azienda in tutte le fasi del suo percorso. L’azienda viene seguita in tutti i passaggi: dalla conoscenza della nostra associazione, alle pratiche burocratiche, alla formazione sulla sindrome di Down, all’accompagnamento, all’inserimento, attraverso un tutor che segue la persona con sindrome di Down. Poi ci sono servizi per le famiglie, che vengono supportate nel riconoscimento dell’età adulta dei figli. C’è naturalmente il discorso informativo su agevolazioni o tutele. Molto importante è, ancora, il lavoro di orientamento e di formazione per i giovani con i quali si costruisce un percorso da quando sono a scuola con l’alternanza scuola lavoro. Poi, terminata la formazione obbligatoria, in base alle occasioni offerte dai territori, ci sono i centri di formazione professionale, oppure iniziano le prime esperienze di tirocinio. Chiaramente i tirocini possono o rappresentare delle prime esperienze formative pratiche, oppure invece portare all’assunzione. I ragazzi con sindrome di Down vengono quindi seguiti sia nell’orientamento, sia poi nella parte pratica con i tirocini”.
– Quali sono le attività ed i settori nei quali i ragazzi sembrano riuscire meglio?
“Prima si pensava che solo il settore della ristorazione potesse accogliere persone con sindrome di Down, in realtà l’esperienza sul campo ha dimostrato che non è la tipologia di lavoro a fare la differenza, non c’è un settore più adatto di un altro. Quello che funziona è la modalità di inserimento, ovvero che si lavori nell’ottica del collocamento mirato. Quando si apre un posto un nostro referente fa un incontro nel quale cerca di capire le caratteristiche dell’azienda e quali sono le possibili mansioni, ruoli e postazioni nelle quali la persona dovrebbe essere collocata. Poi, in base a questo, fa una prima selezione del candidato. Abbiamo persone con sindrome di Down in tanti posti diversi di lavoro: abbiamo camerieri, operai, magazzinieri, segretari, aiuto cuochi, commessi, addetti alle pulizie, ecc. La cosa fondamentale è che si individui un posto di lavoro in cui la persona abbia delle mansioni ben organizzate. È importante infatti lavorare su un progetto formativo. Generalmente facciamo inserimenti lavorativi fino a 25 ore alla settimana, perché abbiamo osservato che in turni di 4, massimo 5 ore le persone mantengono l’attenzione e sono produttive. Orari più lunghi sono invece difficilmente sostenibili. Inoltre tale limite di orario è funzionale anche per ragioni reddituali al mantenimento del diritto alla pensione di invalidità civile e a quella di reversibilità. Il discorso principale è però che la persona deve trovare una dimensione in cui si esprime al meglio”.
– Quali pensa possano essere le condizioni attraverso le quali le persone con sindrome di Down possano esprimere meglio il loro potenziale umano ed intellettivo?
“Le condizioni sono che si lavori con tutti gli attori del processo perché le aziende vanno informate, formate e accompagnate. Anche le persone con sindrome di Down vanno seguite, orientate e formate e anche le loro famiglie allo stesso modo. L’obiettivo è che le persone possano esprimersi in maniera felice e produttiva in un posto di lavoro. Per fare questo bisogna individuare la situazione ottimale per ognuno, ovviamente ci vuole un lavoro di mediazione e accompagnamento. È importante poi anche far capire alle aziende che non devono avere nei confronti di questi lavoratori un atteggiamento protettivo e assistenzialistico che non aiuta il lavoratore con sindrome di Down. Funzionano molto a questo riguardo, invece, gli accordi con grandi realtà aziendali, che aiutano a far conoscere le diverse realtà e ad uniformare uno stile di lavoro. Con le catene in particolare, si creano dei protocolli di lavoro, quindi poi, quando si parte con gli inserimenti, il lavoro è più semplice.
– Ci sono delle aspettative al riguardo verso il nuovo Governo?
Quello che ci aiuterebbe molto sarebbe che ci fossero maggiori controlli sull’applicazione della legge 68/99 (tale legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato). Ad oggi purtroppo ancora molte realtà sfuggono ai controlli. Un punto dolente sono poi i servizi pubblici che sarebbero davvero da potenziare. Poi sarebbe importante anche dare ai servizi privati che si occupano di mediazione, come noi, un maggiore riconoscimento, perché senza la mediazione la legge da sola non è sufficiente.
I dati ci dicono che al 31 dicembre del 2018 noi avevamo circa 200 persone con regolare contratto, si tratta del 16,4% della nostra percentuale di adulti. Il dato è buono in termini di crescita, in quanto solo nel 2018 sono state fatte 42 nuove assunzioni. Negli ultimi 5 anni la situazione è decisamente migliorata in termini di attenzione e interesse da parte delle aziende. Questo chiaramente è anche il frutto di un grande lavoro in termini di sensibilizzazione. Poi il volano di tutto ciò sono sicuramente i ragazzi che lavorano e che con le loro buone prestazioni diventano un esempio positivo”.