L’ utopia dell’ industria della moda sostenibile
Non è raro ormai leggere sulle riviste e sui giornali o sentire discorrere di «moda sostenibile», green fashion, eco fashion, ethical fashion, fair fashion o slow fashion. Tutte queste espressioni intendono riferirsi in generale a un recente movimento rivolto a promuovere un cambiamento nel settore della moda e qualificare i suoi prodotti come rispettosi dell’ambiente e della società.
L’industria della moda, che rappresenta uno dei settori economici più importanti a livello mondiale, è infatti a tutti nota anche per le conseguenze devastanti in termini di impatto ambientale e ingiustizia sociale. «Moda» e «sostenibilità» quindi, se impiegati per descrivere uno stesso fenomeno, possono creare allo stesso tempo una contrapposizione di idee e di interessi.
Diverse tipologie di moda sostenibile
La green fashion e l’eco-fashion possono considerarsi allora più incentrate sulla tutela dell’ambiente e sulla promozione di un’economia circolare; mentre l’ethical fashion e la fair fashion sono espressioni di ampio respiro che, rispetto alla produzione e alla distribuzione dei prodotti della moda, possono introdurre valutazioni etiche e di giustizia e considerare gli effetti delle scelte effettuate verso l’intera collettività; la slow fashion, infine, sembra nascere per contrapposizione alla fast fashion per evidenziare un diverso modo di produrre e consumare.
Moda sostenibile: la differenza tra fast fashion e slow fashion
Come ha osservato Kate Fletcher, research professor, consulente di eco fashion e attivista del design, nel descrivere i rapporti fra fast fashion e slow fashion, la fast fashion «non riguarda tanto la velocità, ma l’avidità» ed è essenzialmente incentrata sul profitto. Inoltre «fast is not free», per cui la brevità dei tempi di consegna e l’economicità dei vestiti «sono rese possibili solo dallo sfruttamento del lavoro e delle risorse naturali».
Mentre la slow fashion, riprendendo le idee dello slow movement per applicarle all’industria della moda globale, «non è basata sul tempo ma sulla qualità» e, se «naturalmente la qualità costa di più», la tendenza dovrà essere quella di «acquistare meno prodotti» ma qualitativamente migliori. In definitiva non sussiste alcun dualismo fra slow e fast, ma «un approccio diverso in cui designer, acquirenti, rivenditori e consumatori sono più consapevoli dell’impatto dei prodotti sui lavoratori, sulle comunità e sull’ecosistema».
Una nuova direzione della moda
In definitiva la moda «sostenibile» è ancora un’utopia. Per suggerire una nuova direzione della moda occorre allora una trasformazione della produzione e dello stile di vita della popolazione, anche perché una «crescita illimitata» non è sostenibile. Diversi rapporti hanno confermato la finitezza del pianeta e la necessità di un generale cambiamento. In particolare, l’ultima analisi di Jorgen Randers, «2052. A Global Forecast for the Next Forty Years», dopo ben quattro decenni dal primo report al Club di Roma «The Limits to Growth» (1972), avverte che «prima o poi, la rivoluzione industriale sarà seguita dalla rivoluzione della sostenibilità».
È necessario quindi un cambiamento sociale e culturale sensibile ai limiti ecologici, alle esigenze della comunità e alla giustizia sociale, nonché un modello economico compatibile con i problemi della sostenibilità.
Articolo di Michaela Giorgianni