La barbarica pratica dell’infibulazione mentre il Mondo tace
L’infibulazione è una delle pratiche più barbariche tutt’ora in atto in molti Paesi del Mondo ma noi occidentali continuiamo a voltarci dall’altra parte
I nostri Governi, sempre attenti e sensibili nei riguardi dei diritti umani, sembrano essersi dimenticati delle circa 200 milioni di vittime di infibulazione tutt’ora esistenti nel Mondo. Il motivo principale sembra essere che, nella maggior parte dei casi, si tratterebbe di culture del Terzo Mondo nelle quali si evita di intromettersi per menefreghismo o per interessi economici
L’enciclopedia Treccani descrive l’infibulazione come “Mutilazione genitale femminile praticata da alcuni popoli africani e asiatici allo scopo di impedire alle ragazze rapporti sessuali. Consiste nella escissione parziale o totale dei genitali esterni, dopo la quale i due lati della vulva vengono cuciti con una sutura o con spine in modo che vi sia una restrizione del diametro dell’ostio vulvare; viene lasciato solo un piccolo orifizio che permette la fuoriuscita del flusso dell’urina e del sangue mestruale. […]”. La descrizione di questa pratica non può non far riflettere e la sua nomenclatura ha origini relativamente recenti; infatti, il nome infibulazione deriva da una definizione originata dalla III Conferenza del Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali rilevanti per la salute di donne e bambine/i (Iac nell’acronimo inglese, Ci-Af in quello francese) a tutte quelle pratiche tradizionali in cui si ha l’asportazione e/o l’alterazione di una parte dell’apparato genitale esterno della donna.
La stessa nomenclatura FGM/C (acronimo di Female Genital Mutilation/Cutting) non viene, tutt’oggi, accettata – perché troppo negativo nella sua classificazione – dagli stessi popoli che la praticano. Proprio questa differenza prospettica è alla base della prima grande incomprensione su questo tema e, ovviamente, sulla sua cessazione: fino a quando i popoli che la praticano continueranno a percepirla come qualcosa non del tutto negativo, allora non si potrà sperare di debellarne la realizzazione.
Una classificazione più dettagliata ci viene presentata dalla AIDOS, Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo attraverso un report realizzato da Carla Pasquinelli, in Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, che analizza l’origine e la differenziazione interna di questa procedura. Pasquinelli la classifica in quattro tipologie con livello crescente di invasività. La scelta dell’una o dell’altra pratica dipende esclusivamente. dal contesto culturale nel quale viene applicata. Citiamo le definizioni della stessa dott.ssa Pasquinelli:
- il I tipo consiste nel recidere il prepuzio o nella asportazione parziale o totale della clitoride (clitoridectomia). Questa pratica prende il nome tradizionale di Sunna;
- il II tipo, o escissione, consiste nel recidere il prepuzio e nell’asportazione, oltre che della clitoride, di parte o di tutte le piccole labbra;
- il III tipo, cioè l’infibulazione ocirconcisione faraonica, è la forma di intervento più cruenta e consiste nell’escissione della clitoride e nell’asportazione delle piccole labbra e anche – soprattutto in passato, ma in area rurale ancora oggi — dell’asportazione parziale o totale delle grandi labbra e nella successiva cucitura dell’apertura vaginale ridotta a un piccolo pertugio — non più grande di un chicco di riso o di miglio — per permettere la fuoriuscita dell’urina e del sangue mestruale;
- il IV tipo include tutta una serie di procedure che vanno dal trafiggere o punzecchiare lievemente la clitoride in modo da farne uscire alcune gocce di sangue a tutta una ampia casistica di manipolazioni che variano molto da una etnia all’altra – allungamento della clitoride o delle labbra, cauterizzazione della clitoride, taglio della vagina (gishiri), introduzione in vagina di sostanze corrosive per restringerla o renderla asciutta.
Lo scenario che ne deriva è un corpo menomato. A ciò si deve aggiungere che queste procedure vengono attuate su bambine e vengono tutte realizzate senza l’uso di anestetici e, troppo spesso, in condizioni igienico-sanitarie insufficienti. Ne derivano frequenti infezioni (più e meno gravi) senza contare il danno emotivo che queste giovanissime donne hanno subìto.
Un’analisi molto dettagliata, realizzata da Actionaid, parla di più di 200 milioni di bambine nel Mondo afflitte da queste pratiche crudeli e pericolose. La percentuale di realizzazione si concentra principalmente in 10 Paesi: Somalia, 98%; Guinea, 97%; Gibuti, 93%; Sierra Leone, 90%; Mali, 89%; Egitto, 87%; Sudan, 87%; Eritrea, 83%; Burkina Faso, 76%; Gambia, 75%. Leggendo queste cifre – che appaiono molto alte – spiccano alcuni Paesi su altri: oltre ad esserci alcuni nomi che non ci sorprende leggere (perché consideriamo arretrati dal punto di vista dei diritti umanitari e per i quali abbiamo un pregiudizio naturale), salta all’occhio l’Egitto con la sua percentuale di 87% di mutilazioni genitali femminili che, invece, risulta essere – ad oggi – uno dei partner commerciali più importanti dell’Europa.
Mentre ONG come Actionaid propongo la campagna di sensibilizzazione culturale locale e supporto psicologico con il progetto (tra gli altri) di Fight for Women; i nostri Governi tacciono e continuano a mettere al centro gli interessi economici dimenticando i diritti umanitari.
Sicuramente dobbiamo e possiamo fare molto di più. Dopotutto quelle bambine potrebbero essere nostre figlie e sorelle e, magari, in questa prospettiva il loro dolore potrebbe assumere – finalmente – un valore più collettivo.