La cura del taglio
Giuseppe Conforzi è responsabile dei tecnici sanitari e coordinatore di radiologia del dipartimento di emergenza della Asl Roma 3, dove si trova l’ospedale G.B.Grassi di Ostia. Ha un’esperienza trentennale ed è stato per quasi vent’anni segretario aziendale dei sindacati UILFPL. Dal suo punto di vista il diritto alla salute non è più garantito. E l’esternalizzazione dei servizi ha disidratato lentamente “la pianta della sanità pubblica”.
Dopo il Covid i problemi cronici della sanità pubblica italiana sembrano peggiorare. Liste d’attesa lunghissime, grandi difficoltà nell’accesso ad esami medici, situazioni insostenibili nei pronto soccorso. In molti casi mancano i posti letto e i pazienti vengono lasciati per ore e in alcuni casi anche per giorni nelle corsie.
Secondo lei si può parlare di ‘morte del diritto alla salute’ nel nostro Paese?
È morta la sanità pubblica per come è concepita ora, e soprattutto è la morte della Costituzione italiana, perché non si garantisce più il libero accesso a tutti i cittadini alla sanità, che è tecnicamente privatizzata. Oggi la sanità pubblica si occupa solo dei malati cronici che la sanità privata non vuole perché costa tantissimo. Gli interventi di elezione, strumentali, gli esami diagnostici, li fa la sanità privata. Perché con un basso costo si ha il massimo del guadagno. Questo è un dato di fatto. Un’esternalizzazione generale della sanità pubblica. Ma è un percorso che va avanti da vent’anni. È stato un lentissimo disidratare “la pianta della sanità pubblica”. Mentre quello delle liste d’attesa è un problema simile al debito pubblico, che noi ci portiamo dietro da un governo all’altro. È risolvibile? Sì. Le liste d’attesa in una sanità che funziona non dovrebbero esistere, sono una distorsione voluta.
Perché dice che è voluta? Serve per dirottare verso la sanità privata?
I servizi importanti come quello della diagnosi vengono demandati. Ad esempio, una gastroscopia costa circa 580 euro, ovvero il 50% di una pensione media italiana e si tratta di un esame che una persona anziana dovrebbe fare di routine. Oggi o la fai in intramoenia oppure ti rivolgi alla struttura privata. Il 50% di una pensione! Si comprende bene come le pensioni non siano di mercato. Infatti, le persone non si curano. E la mancata diagnosi genera malati cronici che il servizio nazionale dovrà curare. Se tu previeni, invece, le malattie non si cronicizzano o impiegheranno più tempo. Ma quello che è drammatico, è l’accesso al servizio nazionale, che tecnicamente è morto. Sono rimasti in vita i pronto soccorso. Ma sopravvivono. I pazienti, a cui non si può offrire un posto letto, si fanno giorni di degenza nelle sale d’attesa in barella, aspettando di venir trasferiti in un ospedale che li possa accogliere. È quello che succede alla nostra azienda, ma succede in molte. Poi con il Covid, c’è stato un sovraccarico di pazienti che già erano fragili e cronici. E non ci sono i posti letto perché sono stati tagliati scientificamente per una logica di risparmio. Ci ritroviamo a questo. Alle autoambulanze che fungono da riportino perché i pazienti occupano le barelle. Questa è la situazione della sanità pubblica.
L’ospedale Grassi di Ostia ha subito grossi tagli da ottobre 2022. Si ritrova con un numero di posti letto non sufficiente?
Noi andiamo in deroga agli standard regionali. La nostra capacità di posti letto è nettamente insufficiente per la popolazione che dobbiamo assistere. Tutti i pazienti che entrano nel nostro ospedale, che ha un bacino d’utenza tra le 250.000 e le 300.000 persone, verranno trasferiti in strutture accreditate o in altri ospedali regionali.
Quindi secondo lei questi tagli sono sempre collegati alla volontà di creare una posizione di vantaggio per le cliniche private?
No, la questione delle cliniche accreditate riguarda la logica di risparmio. Risparmiare a tutti i costi. Per non tagliare i posti letto, questi vengono poi riconvertiti, ma non si accompagnano le necessità del territorio. Negli anni Novanta, Ostia era uno dei quartieri più giovani di Roma per natalità e per età media dei cittadini, oggi è diventato un quartiere medio, anziano. Quindi le necessità sono cambiate, tant’è vero che mancano posti di medicina per persone anziane che sono in attesa di posti letto. Mancano le strutture, manca la rotazione delle sale operatorie per mancanza di personale. Perché oggi gli interventi di elezione da noi non si fanno più, si fanno quasi solo emergenze. Rispetto agli anni Novanta, dove la chirurgia aveva 52 posti letto, oggi ci sono circa 18 e 11 posti tra chirurgia e ortopedia. Questa è una politica di trent’anni. E il Covid ha segnato negativamente. L’impreparazione della sanità pubblica ha alimentato la sanità privata. Non quella accreditata, che è un’appendice della Regione dove ci sono prezzi convenzionati e presa in carico. Con il Covid hanno aperto i rubinetti. È scioccante quanti soldi siano stati spesi. Un’iniezione di denaro pubblico alla sanità privata (di cui i cittadini non potranno godere in futuro n.d.r.).
Quindi è paradossale. Sappiamo che per trent’anni ci sono stati continui tagli nell’ottica del risparmio e nell’emergenza ci siamo trovati impreparati…
Il Covid è stato una cartina di tornasole. Eravamo impreparati sulle strutture, sulla capienza dei posti letto, sulle rianimazioni, sulle apparecchiature. Un disastro che ha portato denaro pubblico alle strutture private non convenzionate con prezzi esorbitanti. Con i soldi spesi avremmo risanato la sanità pubblica.
Lei è anche docente di sociologia al corso di scienze infermieristiche dell’Università Roma 3. Se immaginassimo per un momento di poter utilizzare quei soldi, osservando criticamente i fenomeni sociali e i cambiamenti demografici, come sosteneva poco fa, a cosa dovremmo guardare per risolvere i problemi e le contraddizioni del sistema sanitario nazionale?
Si dovrebbe accompagnare le necessità con gli investimenti. Un esempio lampante è il reparto di pediatria. Da noi questo reparto ha una media di ricovero per la quale qualunque ospedale privato l’avrebbe chiuso dopo tre giorni… ci sono giorni in cui c’è un solo bambino. Per le situazioni gravi altri ospedali pediatrici di riferimento. Il Bambino Gesù e il Polidori. Ma oggi si mantiene in piedi un reparto con tutto il personale medico, infermieristico e di OSS, ovvero di assistenza agli infermieri, spesso vuoto, con zero ricoveri! E se si va dieci metri più in là e si entra nella sala del pronto soccorso, si vede che gli infermieri non riescono a passare per quante barelle ci sono, una di fianco all’altra…un altro esempio significativo per comprendere la situazione è il numero di parti del nostro territorio. In dieci anni il numero è calato del 40%. Ti do un dato preciso. Nel 2012 erano 2100 e nel 2022 il dato è sceso a 930. Allora, che succede? Cambiano le necessità. Quel territorio è cambiato, perché fisiologicamente è invecchiato. La stessa donna che ha partorito allora, per esempio, adesso sta per andare in menopausa e avrà altre patologie. Quindi, se noi non accompagniamo il cambiamento e non si attua una riconversione, dando delle risposte a quelle necessità, che magari sono patologie chirurgiche, se non si accompagna l’azienda sanitaria in maniera dinamica, abbiamo perso. Perché non si può tenere in piedi una cosa del genere, sia per le risorse economiche ed umane, e soprattutto perché non si offre il servizio. Bisogna conoscere i cambiamenti in tutta la filiera e si potrebbe risparmiare riorganizzando in maniera diversa e ottimizzando gli spazi. Perché la sanità, anche se nessuno lo dice, è fatta di spazi. Di strutture, reparti e di stanze per i malati.