La Turchia “neottomana” di Erdogan
Turchia, dalla democrazia alla deriva autoritaria.
La Turchia“neo-ottomana” di Erdoğan.
L’autoritarismo di Erdoğan e le sue mire imperialistiche preoccupano l’Occidente.
Dopo la riconversione in moschea della Basilica di Santa Sofia ad Istanbul il 24 luglio di quest’anno è ora la volta della chiesa-museo di San Salvatore in Chora.
La chiesa tornerà ad essere un luogo di culto islamico.
Un decreto firmato il 21 agosto dal presidente turco Erdoğan ha infatti confermato la sentenza del Consiglio di Stato dello scorso 19 novembre che aveva annullato la decisione con cui venne costituito il museo.
La riconversione, oltre a far parte di una strategia per raccogliere consensi, si inserisce in un progetto politico e sociale più ampio.
Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia dal 2014 e fondatore nel 2001 del partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), è infatti da anni promotore di una re-islamizzazione del paese.
Il suo conservatorismo lo ha da subito posto in un rapporto antitetico con il padre della moderna Turchia, Mustafa Kemal Ataturk.
Ataturk, dopo essere divenuto il primo presidente della nuova repubblica Turca nel 1923, aveva infatti avviato un colossale processo di secolarizzazione e di modernizzazione del paese.
Un processo che ha permesso alla Turchia di divenire in poco più di dieci anni il primo paese laico del mondo islamico. La secolarizzazione di un paese è però un processo complesso. Ataturk era convinto che l’occidentalizzazione costituisse l’unico modo per civilizzare il paese e che quindi la Turchia sarebbe potuta sopravvivere solo se avesse adottato in pieno gli usi e i costumi che il mondo moderno aveva da offrire. Per questo ha abolito ad esempio l’uso del fez, il tipico copricapo utilizzato dagli uomini e ha imposto l’adozione di abiti dallo stile occidentale.
Sebbene dunque ad Ataturk vada il merito di aver creato una nazione moderna e laica in cui venivano riconosciuti pari diritti agli uomini e alle donne, egli non è stato evidentemente in grado di sanare le profonde contraddizioni di un paese da sempre diviso fra modernità e tradizione.
La corsa all’occidentalizzazione forzata ha in un certo senso privato il popolo turco di una parte del suo passato e del suo folklore.
Un punto debole questo che ha purtroppo permesso diversi anni dopo ad una personalità politica come quella di Erdoğan di insinuarsi al potere.
Il presidente turco ha infatti saputo rispondere all’esigenza delle frange conservatrici e maggiormente legate alla religione musulmana di rivendicare la propria identità ed ha riconferito all’ islam un ruolo centrale nella vita politica e sociale del paese.
In un paese lanciato verso il futuro, ma privato delle sue radici Erdoğan ha saputo evocare nell’immaginario collettivo i fasti del glorioso impero ottomano con la promessa di riportare il paese a quegli antichi fasti.
Quresto è stato uno dei fattori che gli hanno permesso in pochi anni di ottenere un consenso enorme.
Un potere ed un consenso che vengono mantenuti attraverso una politica autoritaria e repressiva e che si è inasprita ulteriormente dopo il fallito golpe del 2016.
A partire dal 20 luglio 2016 è stato annunciato lo stato di emergenza che si è protratto per ben due anni e che ha permesso allo stato, investito di poteri speciali, di mettere a tacere tutti gli oppositori di quella che ha ormai assunto le sembianze di una vera e propria dittatura.
Secondo il rapporto di Amnesty International “Purga senza ritorno? Nessun rimedio per i lavoratori licenziati nel settore pubblico in Turchia” sono stati all’incirca130.000 i dipendenti pubblici ad aver perso il proprio posto di lavoro. Lo stato ha inoltre annullato ai lavoratori licenziati il passaporto impedendo loro di trovare un nuovo lavoro all’estero.
Enormi restrizioni sono anche quelle poste alle libertà personali e alla libertà di stampa che è ormai diventata una chimera in Turchia e che per questo si è aggiudicata il titolo della “più grande prigione al mondo per i giornalisti”.
Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) nel 2016 la Turchia ha infatti segnato un record negativo divenendo il primo paese ad imprigionare 81 fra giornalisti, editors e produttori in un solo anno.
In termini di politica estera la missione di Erdoğan è chiaramente quella di far sì che Ankara rivesta nuovamente un ruolo di primo piano all’interno dell’area mediorientale, come lo dimostrano gli interventi militari in Siria e in Libia. Una politica dal sapore imperialista a cui ci si riferisce con il nome di“neo-ottomanesimo”.
Le sue mire espansionistiche lo hanno portato ultimamente a scontrarsi con la Grecia.
Al centro della disputa ci sono le rivendicazioni di giacimenti di idrocarburi nel mediterraneo orientale avanzate da entrambi i paesi.
La situazione è attualmente molto tesa ed è probabile che vengano proposte delle sanzioni economiche al vertice europeo che si terrà alla fine del mese di settembre.
Il futuro della Turchia appare dunque incerto per ora e la strada fino alle prossime elezioni presidenziali che si terranno nel 2023 è ancora lunga. Sebbene il coronavirus e la crisi economica abbiano incrinato sensibilmente la popolarità del presidente turco, questo mantiene ancora una presa sull’elettorato. A lungo andare è possibile che la sfrenata megalomania di Erdoğan possa rivelarsi autodistruttiva e che lo porti a commettere qualche errore fatale, ma per il momento è ancora troppo presto per fare dei pronostici.