Myanmar, la guerra civile è ormai alle porte

Myanmar, la guerra civile è ormai alle porte

Post-Golpe

Myanmar, la guerra civile è ormai alle porte

Il colpo di stato messo in atto dall’esercito del Myanmar il 1° febbraio di quest’anno ha posto fine alla svolta del Paese verso la democrazia e l’ha riportato al governo militare. Il consigliere di stato Aung San Suu Kyi si trova attualmente agli arresti domiciliari in una località segreta. Il fronte di resistenza birmano non si arrende e per le strade del Myanmar centinaia di migliaia di persone continuano a manifestare contro il golpe.

La mattina del 1 febbraio di quest’anno l’esercito birmano ha rovesciato il governo eletto trasferendo tutti poteri al capo delle forze armate Min Aung Hlaing. La presidenza ad interim è stata invece affidata ad uno dei due vicepresidenti del Paese, Myint Swe.

Durante le settimane prima del golpe i militari avevano contestato i risultati elettorali del novembre dell’anno scorso, che avevano visto la vittoria schiacciante della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) con più dell’80% dei voti.

Le accuse di brogli non sono state prese in considerazione dal Governo e l’esercito ha deciso di mettere in atto il colpo di Stato proprio il giorno in cui la nuova assemblea si sarebbe dovuta riunire per la prima volta per l’inaugurazione del nuovo Parlamento.

Il golpe è stato ufficialmente annunciato dalla stazione televisiva di proprietà militare Myawaddy.

Il presentatore del programma, citando la costituzione del 2008 che consente effettivamente ai militari di dichiarare un’emergenza nazionale, ha annunciato lo stato di emergenza che avrà la durata di un anno.

Il consigliere di stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e altri esponenti del partito al governo sono stati arrestati.

La Suu Kyi è stata poi trasferita in una località segreta e le è stata negata qualunque rappresentanza legale.

Contro la Suu Kyi i leader della giunta hanno intentato un processo farsa istituito con il solo scopo di confermare e prolungare la sua detenzione.

Ad oggi sono sei i campi di imputazione a suo carico, fra questi c’è una presunta violazione della legge sulla restrizione alle importazioni e di un’altra sulla gestione dei disastri naturali.

All’annuncio del golpe centinaia di migliaia di birmani si sono riversati nelle strade per manifestare contro la giunta militare.

All’inizio la risposta alle proteste da parte dell’esercito è stata moderata, ma poi con il passare dei giorni è diventata sempre più brutale.

Secondo il gruppo di monitoraggio birmano “Assistance Association for Political Prisoners” fino ad oggi sono stati oltre 600 i manifestanti uccisi dalla giunta militare.

Uno scenario disastroso, ma per così dire familiare per la popolazione del Myanmar che ha una lunga esperienza in fatto di proteste.

Nel 1962 si ricorda l’uccisione di 100 studenti universitari che manifestavano in modo pacifico contro il regime dittatoriale di Ne Win.

Gli anni 80 furono poi teatro di grandi movimenti di protesta che ebbero inizio nella capitale e che si estero in seguito in tutto il paese.

Durante l’insurrezione nazionale che ebbe inizio l’8 agosto 1988, la celebre “rivolta 8888” furono migliaia gli studenti, i monaci e i civili uccisi dal Tatmadaw, l’esercito del Myanmar. La persecuzione politica e l’uso della violenza contro gli oppositori, i giornalisti e le minoranze sono poi continuate negli anni sotto la guida dei capi militari e del governo.

La situazione però ora è diversa. Se prima lo scopo delle manifestazioni era quello di cambiare i vertici del regime militare ora è lo stesso Tatmadaw che viene percepito come una minaccia per il futuro della democrazia e della Birmania in generale.

Questo perché ad essere cambiata è sostanzialmente la coscienza politica del popolo birmano.

Dopo la vittoria del NLD nel 2015 il Myanmar aveva infatti intrapreso un fragile processo di transizione democratica.

Sebbene si trattasse di una transizione “parziale” e “imperfetta” per via dell’enorme influenza che le forze armate hanno sempre continuato ad avere nella vita politica del paese, questa aveva avuto un forte impatto sulla vita dei cittadini che potevano finalmente godere di maggiori libertà sociali.

La popolazione del Myanmar non è disposta a rinunciare ai progressi raggiunti e la prospettiva di tornare ad un’altra dittatura militare non è tollerabile.

Per questo dopo settimane di proteste pacifiche il fronte della resistenza birmana ha iniziato a mobilitarsi in una sorta di guerriglia. Nelle città gli abitanti hanno iniziato a costruire barricate per limitare le incursioni dei militari e hanno imparato a costruire bombe fumogene. Molti manifestanti hanno invece lasciato i grandi centri abitati per andare ad addestrarsi nelle giungle del paese nell’utilizzo delle armi da fuoco.

Stando alle dichiarazioni rilasciate nel corso di un’intervista a Reuters dal Dottor Sasa, inviato presso le Nazioni Unite del CRPH (Comitato di Rappresentanza del Pyidaungsu Hluttaw), il governo civile parallelo composto dai membri eletti del parlamento birmano, esisterebbero dei piani concreti per la creazione di un fronte armato anti-golpe, un vero e proprio “esercito federale”.

L’inviato ha affermato che“L’esercito federale è un obbligo. E’ il modo in cui otteniamo democrazia e libertà”.

Il Myanmar si starebbe dunque preparando a combattere una guerra civile. I manifestanti hanno capito che di fronte a questo regime non c’è spazio per il compromesso e in mancanza di una risposta efficace da parte della comunità internazionale, che fino ad ora ha mantenuto una posizione sin troppo cauta, questa appare l’unica strada percorribile.

Uno slogan del movimento di protesta recita “Avete scherzato con la generazione sbagliata”e a giudicare dalla determinazione e dal coraggio con cui questa generazione di giovani birmani sta lottando contro il regime sembrerebbe essere davvero così.

Questa nuova generazione ha dimostrato di aver imparato dagli errori di chi l’ha preceduta, è più tollerante ed è mossa dalla volontà di instaurare una “democrazia federale” in cui tutti gli oltre 130 gruppi etnici del paese possano ottenere un equo riconoscimento.

L’augurio è che sia proprio questo nuovo desiderio di uguaglianza e di collaborazione fra le diverse etnie presenti territorio una delle carte vincenti per rovesciare una volta per tutte questa dittatura militare.

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Amina Al Kodsi