Nessuna fine e nessun inizio
La riforma che congela la prescrizione… e gli animi
Dalla mezzanotte del 1° gennaio 2020 è entrata in vigore la riforma della prescrizione approvata dal primo governo Conte lo scorso anno, e contenuta nel disegno di legge anticorruzione, il cosiddetto “Spazzacorrotti”. La riforma, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Movimento 5 Stelle, prevede il blocco assoluto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
La mediazione politica rese possibile l’approvazione di quella riforma a condizione che l’entrata in vigore fosse differita in modo tale da poter nel frattempo approvare non meglio precisate riforme del processo penale. A fronte di mancati interventi in merito, il 1° agosto 2019 il deputato di Forza Italia Enrico Costa, con altri firmatari, ha presentato alla Camera una proposta di legge per la soppressione della riforma della prescrizione, proposta che sarà discussa in Aula il prossimo 24 febbraio.
È necessario ricordare che la prescrizione, nell’ordinamento penale italiano, è un istituto di diritto sostanziale che prevede l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. Questo per diverse rationes legis: innanzitutto la pretesa punitiva dello Stato ha un senso se avviene in un lasso di tempo ragionevole e tale da rendere efficace la funzione rieducativa della pena. Inoltre più ci si allontana dal tempo della commissione del fatto, più le indagini e i processi si complicano, le prove si deteriorano, i testimoni potrebbero morire o comunque non avere più ricordi lucidi dell’accaduto. La terza ragione alla base della prescrizione è il principio della ragionevole durata del processo, ai sensi degli articoli 111 della Costituzione italiana e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Negli ultimi 15 anni questa è la terza volta che un governo interviene a riformare la prescrizione. Nel 2005 con la legge Cirielli si diminuiscono i tempi, nel 2017 la riforma Orlando prevede meccanismi che la sospendono, nel 2019 Bonafede la “congela”. Si sa, ogni ministro cerca di fare qualcosa che gli sopravviva ma in questo caso specifico, sembrerebbe davvero tempo perso. Per un semplice motivo, come spiega il professor Giovanni D’Alessandro, preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Niccolò Cusano: “La prescrizione è un istituto di diritto sostanziale e di conseguenza si applica non per il passato ma soltanto per il futuro, dunque per i fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020. Normalmente per un reato che non sia gravissimo è da 6 a 7 anni e mezzo. Adesso secondo la legge Bonafede, dopo il primo grado di giudizio non decorre più la prescrizione, quindi la sentenza di primo grado dovrebbe essere prima di 7 anni e mezzo. Quello di cui si discute oggi è qualcosa “in vitro” perché anche se la riforma venisse realmente applicata, così come è entrata in vigore, a prescindere da queste discussioni sul bloccare o non bloccare, da qui a 6-7 anni è ben possibile che le cose cambino e che non se ne vedranno mai gli effetti”.
Prima della riforma, che si arrivasse a una sentenza di primo grado o di appello, un reato poteva essere estinto per il solo trascorrere di un tempo eccessivo, venendo meno l’interesse dello Stato a perseguirlo. Con la riforma dell’attuale Guardasigilli questo non accadrebbe più, e una volta arrivati a una sentenza di primo grado la prescrizione sarebbe effettivamente bloccata.
Ora occorre precisare che il blocco della prescrizione dopo il primo grado non avrebbe conseguenze omogenee sul territorio nazionale perché la percentuale di archiviazioni per prescrizione cambia fortemente da una Corte d’Appello all’altra. Ciononostante, a livello nazionale, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia nel 2018, il 75% delle prescrizioni matura nel primo grado di giudizio, in quella fase cioè che va dalle indagini preliminari all’effettivo ingresso in tribunale, e non verrebbe quindi toccato dalla riforma. E se è facilmente comprensibile come questo progetto non apporterebbe nessun beneficio alle casse dello Stato (anzi!), potrebbe essere più complicato comprendere la mole di lavoro ulteriore che si troverebbero ad affrontare i tribunali, già oberati e stressati nel gestire un sistema garantista complesso, elaborato e raffinato, senza le adeguate risorse materiali.
“Le riforme a costo zero lasciano il tempo che trovano. Servirebbe una impostazione più fattuale che si serva dei contributi empirici in modo da rendere più efficace la macchina della giustizia. Invece che assumere magistrati, cancellieri, togliere l’amianto dai tribunali, informatizzare il comparto di notifica interno, investire tempo e risorse per arginare la microcriminalità, si attuano questi provvedimenti normativi per dare l’illusione al popolo sovrano che si sta intervenendo. Ma non è questa la strada giusta”, afferma l’avvocato penalista Rodolfo Capozzi che opera in una delle realtà più complicate come quella di Roma.
Quello che ci si presenta davanti è dunque la tortuosa strada di un processo infinito in contrasto con un tangibile e coraggioso cambiamento che non è mai iniziato.
Aurora Vena